Quante volte ho guardato al cielo
ma il mio destino è cieco e non lo sa…(Renato Zero)
Mai ho visto un cielo così azzurro, piccole e sparse nuvole morbide e soffici mi accarezzano dolcemente, sono leggera come una piuma, no non voleva essere una metafora e che ora tutto il peso che mi portavo nel cuore fluttua leggero così come la mia anima.
Sono Fabiola ed ho 26 anni, già dal primo vagito ho mostrato il mio carattere deciso e ribelle, ero la prima figlia e questo ha destabilizzato i miei genitori. Dormivo poco, strillavo tanto, il che faceva pensare ad una futura carriera canora ma così non fu.
Comunque visto che non danno in dotazione un manuale delle istruzioni ai neo genitori, superarono questo primo scoglio alternandosi nel tenermi in braccio, posto per me alquanto confortevole.
I primi problemi li ho creati nel momento in cui quelli strilli dovevano essere modificati in parole e frasi di senso compiuto, quindi ad iniziare dalla materna si evinsero le prime difficoltà per proseguire alla primaria, dove era necessario applicarsi nei vocaboli, qualcuno anzi ancor prima mia madre, insegnante appunto, si rese conto che qualcosa non andava.
E fu lì che incontrai per la prima volta un camice bianco. Il primo di una lunga e infinita serie.
Fu anche l’inizio di un sentimento che a quell’età non riconosci, il bullismo, le prese in giro, gli scherni, l’allontanamento. Emozioni e rifiuti che inconsciamente ti porti dentro come ferite che non rimarginano mai ma che appaiono nel corso della tua esistenza come pugnali minacciosi.
Ero piccola ma è proprio a quell’età che non si dovrebbe conoscere il dolore, l’odio, la rabbia, la cattiveria, le differenze, l’indifferenza. Ed è proprio a quell’età che dentro un cassetto si ripone il torto subito e si apre il rifiuto. Quel sottile filo tra fantasia e realtà che ancora oggi le persone non comprendono.
Certo che io proprio fortunata non lo sono stata, a 12 anni poco prima della famosa fase adolescenziale mi beccai una broncopolmonite da urlo, sai quelle che stroncano un cavallo, risultato una vagonata di medicinali compreso il cortisone che mi fece assumere le sembianze di un pesce palla, arrivai a mangiare ogni cosa fosse commestibile fino a pesare 80 kg, mia madre avrebbe potuto tappezzare una parete con le carte delle caramelle gommose. Oggi non so se fosse solo colpa del cortisone o se già il cassetto del torto si era aperto facendomi entrare nella fase del “che me ne importa, faccio ciò che voglio”.
Sta di fatto che dovevo iniziare le superiori e questa cosa mi inquietava non poco. Tutte ste vamp semi modelle, con la puzza sotto il naso, magre e appariscenti fecero in modo che la mia autostima scendesse al di sotto del piano terra di almeno due livelli.
C’era solo un modo perché potessi risalire, dovevo smettere di mangiare.
E fu li inconsapevole del danno che stavo per creare che venne fuori nuovamente il mio essere “fai da te”. Piena della mia convinzione di dovermi riscattare ad ogni costo dei torti subiti, incominciai a guardarmi come realmente ero e piano piano ad immaginarmi come avrei voluto essere.
Dentro di me avevo veramente accumulato mentalmente ogni sofferenza e inconsciamente iniziai a riversarla in quello che consideravo non più un corpo ma un involucro tutto il mondo attorno non mi apparteneva e le parole che mi venivano dette erano sospiri di vento passeggeri e inutili al mio obiettivo.
Non so come sia iniziato, mangiavo poco o niente e solo quello che volevo io, facendo impazzire mia madre che ogni giorno cercava di propormi cibi diversi e succulenti, barando anche sulle dosi e i condimenti ma io nulla. Ero sicuramente insopportabile e sempre più irascibile soprattutto durante i pasti che erano un vero e proprio supplizio.
Stavo raggiungendo buoni risultati nel perdere giorno dopo giorno peso, solo che secondo il mio criterio di giudizio, era troppo lenta la discesa e allora decisi di vomitare, l’avevo letto su un articolo, le modelle vomitano, prendono diuretici e purganti prima delle sfilate. E allora entrai ufficialmente nel club delle anoressiche, e la cosa peggiore era che ne ero fiera, come se avessi conquistato una vetta impossibile.
Finì così il primo anno di superiori, mi piaceva studiare e lo facevo con passione, ma avevo un altro pensiero fisso il cibo, ormai nemico totale e pensiero costante. I miei genitori mi portarono da un nutrizionista, ascoltai tutto come si ascolta una lezione noiosa e una volta uscita, sempre più determinata nei miei obiettivi dichiarai apertamente che avrei mangiato quello che volevo e basta.
Fu la volta di uno psicologo in seconda superiore, dietro anche segnalazione di tutte le persone che frequentavo, ormai preoccupate dalle mie condizioni fisiche visibili e delle quali io non avevo percezione. Io stavo bene, i malati erano loro con le loro paranoie. Ero riuscita a svicolarmi anche da questa cosa e così pure dal neurologo e addirittura neuropsichiatra, nessuno capiva che io finalmente stavo bene, perché nessuno riusciva a capirmi. Ero sola.
Il mio mondo era leggero, io ero leggera eppure mi vedevo ancora grassa, il mio cervello era ancora pieno di grassi saturi che scatenavano sul mio corpo quei rotoli odiosi che vedevo riflessi allo specchio, no non erano ossa era grasso, maledetto grasso che nonostante mangiassi poco o niente e vomitassi ogni giorno non voleva abbandonarmi. Mai avevo odiato così tanto. Smisi pure di bere convinta che anche l’acqua mi facesse gonfiare.
Mi portarono a peso, e si fa per dire, in una clinica per disturbi alimentari dove dovevo seguire un protocollo per 3 mesi, dovevo essere nutrita ed idratata se no rischiavo la vita, così dissero ai miei genitori. Non ebbi la forza di rifiutare dovetti temporaneamente accettare per poi essere cacciata dopo un mese perché nonostante i controlli riuscivo a mangiare e vomitare. Mi portarono direttamente in ospedale ero ormai al limite ma lì non curavano il mio “non voler mangiare” ma il mio corpo debilitato dopo di che mi rimandarono a casa. Tutti volevano che accettassi il cibo come medicina, non avevano capito nulla, se il cibo era mio nemico come potevo accettarlo come medicina?
Fui ricoverata in 6 cliniche per disturbi alimentari, e fui mandata via anzi fui indirizzata in ospedale visto che ogni volta peggioravo ancor di più di quando fossi entrata. Un calvario per tutti e soprattutto per me che non capivo tutto questo accanimento visto che io stavo bene.
Ora che riesco a vedere meglio la mia situazione mi rendo conto di quanta indifferenza, di quanta poca empatia nel gestire le situazioni, di quante ragazze come me vengono considerate “un caso” e non una persona.
All’ultimo ricovero tentarono il tutto per tutto. Era una specie di grande fratello, controllata 24 ore su 24 e supportata da un’equipe multidisciplinare, psichiatra, psicologo, nutrizionista. Avevo un altro nemico, la sacca per l’alimentazione artificiale dentro la quale facevano scorrere un liquido biancastro pieno di nemici, vitamine, grassi, proteine, zuccheri. Ebbi di nuovo un sentimento di odio crescente e di rabbia impotente.
Nel frattempo l’unica cosa che mi dava gioia era studiare. Lo facevo come potevo e quando potevo cercando di non rimanere indietro e supportata dai professori che vedevano in me una mente e non un corpo da giudicare.
Non vomitavo più ma di notte svuotavo la sacca del cibo di nascosto e così raggiunsi un compromesso tra la forzatura e la volontà. Tutto naturalmente tra me e me.
Questo mi portò però ad avere delle infezioni e a dover combattere con un brutto batterio che era entrato nei polmoni andando a peggiorare ulteriormente le condizioni fisiche già debilitate. Ma io ero determinata e mi sentivo forte, peccato che il mio corpo non lo era altrettanto.
Tra un ricovero e l’altro con i miei 40 kg superai brillantemente la maturità e fui orgogliosa di me stessa, finalmente avevo ragione io. Forte e determinata ma ancora troppo sovrappeso secondo la mia testolina, oggi posso dirlo, malata.
Finalmente ero maggiorenne, nessuno poteva più obbligarmi a fare ciò che non volevo ed io volevo andare all’università indovinate quale? Psicologia ma non nel mio paese ma bensì a Roma. Volevo una nuova sfida, dimostrare a me stessa e a tutti che ero in grado di badare a me e che stavo bene, cosa che loro non volevano capire. Ma io non stavo bene, e tutto il mondo aveva ragione. Volevo scappare per essere libera e non controllata dal mondo che non riusciva a capirmi.
Mi trasferì a Roma presi una casa in affitto e iniziai l’università. Fu bellissimo l’università mi piaceva tantissimo e diedi 8 esami in un anno ma nel frattempo diedi anche 10 kg alla bestia che mi logorava il cervello e crollai.
Fui ricoverata in ospedale con a mala pena 30 kg di peso sembravo una radiografia e anche la mia psiche era devastata, nonostante tutto mi dimisero e continuai fino alla fine dell’anno accademico.
Non potevo più stare da sola e i miei genitori mi riportarono a casa dove continuai a studiare spostandomi solo per dare gli esami a Roma accompagnata da qualcuno. Esami che superai sempre brillantemente perché nella mia vita esistevano ormai solo più due cose lo studio e il cibo,
Un altalenarsi tra il bene e il male e io vivevo ogni giorno come quando si ha un angelo su di una spalla e il diavolo dall’altra senza rendermi conto che la vittima ero sempre e solo io.
Finì diverse volte in ospedale, ma avevo imparato a scappare vagando di notte sola per le stazioni di Roma e nonostante mi stessero cercando tutti io mi sentivo forte del fatto che ero maggiorenne e potevo fare tutto quello che volevo. Mia madre era il mio incubo peggiore, mi trovava sempre, arrivai ad odiare anche lei. Ma non ero io, era la bestia che mi comandava a farmi dire o pensare il peggio di tutto e di tutti,
Ormai gli ospedali non mi volevano più ero un peso, per me una grande soddisfazione almeno mi avrebbero lasciata in pace finalmente. La mia anima era l’unico peso che mi portavo addosso come un fardello, ormai sentivo che nessuno sarebbe stato in grado di entrare nelle profondità dei miei pensieri e delle mie ragioni.
Volevo studiare, volevo laurearmi, volevo fare la psicologa per far capire al mondo che le persone come me non sono pazze ma qualcosa va storto nel loro essere e la realtà viene stravolta e che una volta che la bestia si impossessa del tuo cervello la lotta diventa impari, lei era più forte ed io oltre alle medicine che rifiutavo come ulteriori nemici, avevo solo lo studio e la volontà di farcela a raggiungere il mio obiettivo.
Se solo qualcuno non mi avesse guardata con gli occhi ma con il cuore forse sarebbe riuscito ad entrare dentro il mio essere e liberare la mia anima. Ma ormai ero un caso, abbandonata dagli amici, derisa dalla gente, allontanata dai medici, supportata solo dalla mia famiglia alla quale sentivo di aver dato un peso che non meritavano ma del quale amore non riuscivo a nutrirmi.
A volte volavo, con il corpo e con la mente, ero leggera e libera abbracciata ad un albero di ciliegie rubandone i frutti e golosamente assaporandone il gusto dolce e delicato, a volte mi immaginavo in un immenso prato circondata da fiori colorati con i miei libri e una montagna di dolci fatti in casa dalla mia mamma sparpagliati su una tovaglia bianca a volte mi vedevo nel tunnel e al fondo non c’era nessuna luce,
Ero io sempre io con le mie paure e con le mie speranze, con tanta voglia di crescere e di fare ma la forza cominciava a mancarmi e così cominciava anche a mancarmi il fiato. Mancava poco veramente poco mi ero trascinata, appoggiandomi alla mia volontà, fino al margine del mio sogno, dimenticandomi di tutto il resto, trascinando un corpo ormai fatiscente verso il delirio inconscio della distruzione consapevole da un lato, illusoria del fatto che tutto andasse bene, dall’altro.
Mancava poco alla mia laurea, ed io non feci in tempo a presentarla che la bestia decise di prendere ancora e ancora da quel poco che era rimasto. Mi stava togliendo il fiato e con esso la parola e le ultime forze che possedevo. Liquido nei polmoni, il dolore era lancinante, la sofferenza di chi mi amava ancora di più, io non sentivo più nulla in un attimo mi passo davanti tutta la mia vita, le sofferenze che avevo subito da bambina, l’incontro con la bestia, le lotte contro tutto e tutti, l’odio verso il cibo, la bilancia, i medici, le medicine , in un attimo vidi quanto avevo perso nella mia folle ricerca della perfezione mentre io ero la perfezione ma soprattutto l’indifferenza, quella mi pesava di più di ogni altra cosa. Ero un fantasma folle e volontariamente colpevole della mia condizione.
L’anoressia non è pazzia, è una vera e propria malattia oggi lo so. Oggi ne sono consapevole. Oggi io sono libera.
Continuo a vagare leggera come una piuma tra le nuvole, spinta dal vento caldo, mi hanno conferito la laurea senza che avessi potuto essere lì come avevo da sempre agognato, ma non importa perché non potrò esercitare, non potrò aiutare chi come me avrà la sfortuna di incontrare il mostro che ti mangia, volo in alto e sono felice, non sono più una paziente scomoda, non sono più la ragazza dei 27 kg, non sono più un “peso” sono Fabiola e sono un angelo.
Dedicato a Fabiola (1985-2011) un’altra vittima dell’indifferenza.
Patrizia Maria Macario
